La crisi della paternità universale: tra assenza e riscoperta del legame educativo (di Mattia Stefanelli - educatore e consulente di libri per bambini di Taranto)
Nel nostro tempo si
assiste a una crescente crisi della paternità, non solo nel senso biologico o
familiare, ma anche in quello simbolico, culturale e pedagogico.
Il padre, da sempre figura di autorità e di mediazione, appare oggi smarrito, dislocato in ruoli incerti, spesso assente o svuotato del suo significato educativo. «La figura del padre si è eclissata» scrive Massimo Recalcati ne Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013), sottolineando come la sua funzione non sia quella del comando, ma del limite e del desiderio.
Il padre, nel senso pedagogico più profondo, non è colui che impone, ma chi indica la via, chi accompagna il figlio nella scoperta del mondo e di sé, introducendolo alla Legge e al senso del vivere. L’insegnamento di Jacques Lacan aiuta a comprendere questo passaggio: il «Nome del Padre» non coincide con la figura concreta del genitore, ma rappresenta la funzione simbolica che introduce il soggetto alla dimensione della Legge, della parola e del desiderio.
Quando tale funzione viene meno, si produce quella che Lacan definisce la “forclusione del Nome del Padre”: l’ingresso nel mondo senza mediazione, dove tutto è possibile e nulla ha più valore. È esattamente questa la condizione di molte giovani generazioni contemporanee, orfane di un padre simbolico che sappia dire “NO” e, attraverso quel limite, rendere possibile la libertà. Il rischio maggiore oggi è quello di crescere generazioni senza padri interiori: bambini e ragazzi privi di riferimenti stabili, lasciati soli a costruire un’identità fragile in un contesto iperindividualista, dove l’autorità viene confusa con l’autoritarismo e il dialogo con la deresponsabilizzazione adulta.
La società dei consumi e della connessione permanente ha contribuito a indebolire la figura paterna, sostituendola con modelli virtuali e frammentati, incapaci di trasmettere senso e direzione. In tale scenario, l’educazione perde il suo orientamento, trasformandosi in un rapporto orizzontale che accompagna ma non guida, che ascolta ma non orienta. Eppure, educare significa anche saper porre limiti, indicare orizzonti, trasmettere valori. Il padre autentico non domina, ma testimonia; non reprime, ma accompagna verso l’autonomia. Egli è colui che mostra che la libertà non nasce dall’assenza di regole, ma dall’incontro con il limite, dal riconoscimento dell’altro e della realtà.
L’esperienza pedagogica di Pinocchio ci offre una metafora potente di questa paternità ritrovata. Geppetto non è un padre perfetto: è povero, impulsivo, ingenuo, ma profondamente umano. Ama, attende, soffre, e non smette mai di cercare il suo figlio perduto. È proprio nella distanza e nel dolore che Geppetto diventa padre, mentre Pinocchio, attraverso l’errore e la disobbedienza, diventa figlio. Solo quando riconosce l’amore del padre e desidera tornare a lui, la sua umanità si compie.
La speranza educativa risiede dunque nel recupero di una paternità capace di presenza, di ascolto e di trasmissione. Una paternità che non si misura sul potere, ma sulla responsabilità di generare vita interiore e di indicare il senso. Tornare a essere padri significa riscoprire il valore del limite come atto d’amore, la forza del desiderio come motore educativo. Perché, come ricorda Umberto Galimberti, «non si nasce padri, lo si diventa»: ogni paternità è un cammino, un atto di fiducia nel futuro e nella libertà dell’altro.
Il padre, da sempre figura di autorità e di mediazione, appare oggi smarrito, dislocato in ruoli incerti, spesso assente o svuotato del suo significato educativo. «La figura del padre si è eclissata» scrive Massimo Recalcati ne Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013), sottolineando come la sua funzione non sia quella del comando, ma del limite e del desiderio.
Il padre, nel senso pedagogico più profondo, non è colui che impone, ma chi indica la via, chi accompagna il figlio nella scoperta del mondo e di sé, introducendolo alla Legge e al senso del vivere. L’insegnamento di Jacques Lacan aiuta a comprendere questo passaggio: il «Nome del Padre» non coincide con la figura concreta del genitore, ma rappresenta la funzione simbolica che introduce il soggetto alla dimensione della Legge, della parola e del desiderio.
Quando tale funzione viene meno, si produce quella che Lacan definisce la “forclusione del Nome del Padre”: l’ingresso nel mondo senza mediazione, dove tutto è possibile e nulla ha più valore. È esattamente questa la condizione di molte giovani generazioni contemporanee, orfane di un padre simbolico che sappia dire “NO” e, attraverso quel limite, rendere possibile la libertà. Il rischio maggiore oggi è quello di crescere generazioni senza padri interiori: bambini e ragazzi privi di riferimenti stabili, lasciati soli a costruire un’identità fragile in un contesto iperindividualista, dove l’autorità viene confusa con l’autoritarismo e il dialogo con la deresponsabilizzazione adulta.
La società dei consumi e della connessione permanente ha contribuito a indebolire la figura paterna, sostituendola con modelli virtuali e frammentati, incapaci di trasmettere senso e direzione. In tale scenario, l’educazione perde il suo orientamento, trasformandosi in un rapporto orizzontale che accompagna ma non guida, che ascolta ma non orienta. Eppure, educare significa anche saper porre limiti, indicare orizzonti, trasmettere valori. Il padre autentico non domina, ma testimonia; non reprime, ma accompagna verso l’autonomia. Egli è colui che mostra che la libertà non nasce dall’assenza di regole, ma dall’incontro con il limite, dal riconoscimento dell’altro e della realtà.
L’esperienza pedagogica di Pinocchio ci offre una metafora potente di questa paternità ritrovata. Geppetto non è un padre perfetto: è povero, impulsivo, ingenuo, ma profondamente umano. Ama, attende, soffre, e non smette mai di cercare il suo figlio perduto. È proprio nella distanza e nel dolore che Geppetto diventa padre, mentre Pinocchio, attraverso l’errore e la disobbedienza, diventa figlio. Solo quando riconosce l’amore del padre e desidera tornare a lui, la sua umanità si compie.
La speranza educativa risiede dunque nel recupero di una paternità capace di presenza, di ascolto e di trasmissione. Una paternità che non si misura sul potere, ma sulla responsabilità di generare vita interiore e di indicare il senso. Tornare a essere padri significa riscoprire il valore del limite come atto d’amore, la forza del desiderio come motore educativo. Perché, come ricorda Umberto Galimberti, «non si nasce padri, lo si diventa»: ogni paternità è un cammino, un atto di fiducia nel futuro e nella libertà dell’altro.
Mattia

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