"Tra le mura" che educano. (di Manuel Grandegger - pedagogista e direttore convitto a Bolzano)

 


Crescere non è mai un percorso lineare. Ci sono luoghi che, più di altri, accompagnano silenziosamente questo cammino: tra regole e libertà, cadute e scoperte, sfide e sorrisi. Il convitto è uno di questi luoghi, dove per anni tanti adolescenti vivono, imparano e si formano.
Un racconto di chi, da direttore, prova ogni giorno a tenere accesa la lanterna dell’educazione — tra le mura che, davvero, educano.

Ci sono luoghi che non sono semplicemente muri e porte. Sono spazi che respirano, che si riempiono di voci, di risate, di silenzi e di sogni. Il convitto è uno di questi luoghi: una casa grande, piena di giovani vite in cammino, ognuna con la propria storia, il proprio bagaglio, le proprie paure e speranze.

Ogni settembre, quando riapriamo le porte, è come accendere una lanterna in una notte nuova. Entrano ragazzi e ragazze da ogni dove, con gli zaini pieni di vestiti e cuori un po’ stretti per ciò che lasciano alle spalle. Si atteggiano da “grandi”, mostrano sicurezza e indipendenza, ma basta poco – una sera più lunga, una voce amica che manca – perché dietro una porta chiusa scenda una lacrima silenziosa. È il segno più autentico di quanto il legame con casa, con mamma e papà, resti sempre vivo, anche quando si sceglie di camminare da soli.

Essere direttore di un convitto non significa solo amministrare spazi e orari. Significa custodire una parte preziosa dell’adolescenza di cento ragazzi, che qui trascorrono gran parte dei loro anni più delicati – tra i 14 e i 19 – sei giorni la settimana, nove mesi all’anno. È un tempo lungo, denso di cambiamenti, in cui si impara a vivere con gli altri, a rispettare regole, a gestire libertà nuove. È un tempo educativo nel senso più profondo: accompagnare, orientare, a volte anche contenere, ma sempre con lo sguardo rivolto alla crescita della persona.

Le decisioni che prendiamo ogni giorno – una regola da far rispettare, un richiamo, una parola di incoraggiamento o una semplice presenza silenziosa – non sono mai solo gesti pratici. Sono scelte educative, spesso invisibili, che nascono dal desiderio di aiutare ogni ragazzo a diventare sé stesso. E non sempre è facile: trattare tutti allo stesso modo, restare giusti anche quando sarebbe più comodo chiudere un occhio, spiegare ai genitori decisioni che da fuori possono sembrare dure o ingiuste.

Ma, con il tempo, anche i genitori imparano a vedere più a fondo: capiscono che né il direttore né gli educatori sono “cattivi” (anche se a volte i ragazzi ne sono convinti), ma che dietro ogni scelta c’è un intento buono, anche quando costa — volere il meglio per i loro, e per i nostri, ragazzi.

Il convitto, in fondo, rimane un’avventura. E come in tutte le avventure, si può sbagliare, prendere una deviazione non scelta bene, inciampare, o magari farsi anche un po’ male, ma tutto si può risolvere, e tutte le ferite – col tempo, con la parola, con la fiducia – guariscono. Ci sono giorni di sole e giorni di tempesta, momenti di entusiasmo e momenti di scontro. Nonostante i litigi con gli educatori o con il direttore, nonostante le regole e le conseguenze, dentro queste mura si cresce. Qui si impara a essere adulti, un passo dopo l’altro, anche senza accorgersene.

E poi, un anno, due o dieci dopo l’uscita dal convitto, capita che quei ragazzi tornino.

Magari con un sorriso ironico, magari con un «ti ricordi quando…», e spesso con un grazie non detto ma chiaro negli occhi. E allora capiscono – e noi con loro – che quell’avventura ha lasciato un segno, che qualcosa è rimasto dentro di loro, qualcosa che li ha aiutati a diventare grandi.

E quando li vediamo varcare di nuovo la porta, sappiamo che ne è valsa la pena. Anche se – diciamolo – non sempre vengono solo per salutarci… ma “solo” per il parcheggio (nel nostro caso ahah).


Manuel

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